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Anemia Infettiva Equina, i dati usciti dal convegno del 1 ottobre a Roma

11/10/2012

(11 ottobre 2012)

Lo scorso 1 ottobre si è tenuto un importante convegno internazionale a Roma, organizzato dal Ministero della Salute e dall’Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana che è attualmente il Centro di Referenza nazionale per questa malattia.

Al Convegno (che era valido anche per il rilascio di crediti formativi) hanno partecipato circa 250 veterinari provenienti da 8 Paesi. Tra i relatori anche alcuni tra i massimi esperti di questa malattia, come il Dott. Issel e il Dott. Cook, del Gluck Equine Veterinary Center, Università del Kentucky.

I dati presentati e gli aggiornamenti sulle possibilità di trasmissione di questa malattia confermano quanto IHP asserisce da tempo circa il bassissimo rischio rappresentato dall’AIE ed in particolare dai cavalli portatori sani.

Secondo l’IZS, nel periodo di sorveglianza 2007/2011, su 1.080.043 cavalli esaminati, 1.479 sono risultati positivi, cioè lo 0,14%. Maggiore la proporzione dei positivi fra i muli (736/12.000). Modeste invece le prevalenze negli asini, tra i quali sono stati accertati solo 35 casi.

Percentuali bassissime dunque, soprattutto tra i cavalli e gli asini. Ma il dato che più salta all’occhio è che in tutti questi anni, all’osservatorio epidemiologico del Centro di Referenza per l’Anemia Infettiva, non sono stati documentati casi di malattia conclamata, secondo quanto riportato dal Dott. Marcello Sala: si parla solo di cavali risultati positivi al test anticorpale, nei quali la viremia è “generalmente insufficiente a contagiare altri equini” (come affermato dall’ANMVI in precedenti comunicati).

Non solo: dal convegno è venuto fuori un interessante chiarimento sulle modalità di trasmissione, risultando che il vero rischio è rappresentato da improprie gestioni di strumenti veterinari, quali siringhe, aghi o attrezzi chirurgici.

Secondo il Dott. Issel, infatti, parlare di contagio attraverso gli insetti è qualcosa che rimane poco più che nel campo della teoria: un tafano che, per ipotesi, succhi sangue da un cavallo sieropositivo, manterrà nel proprio apparato buccale una quantità infinitesimale di sangue, insufficiente a infettare un soggetto sano (sempre nell’ipotesi che il tafano si sposti dal primo al secondo cavallo). In ogni caso, nella “bocca” del tafano, il virus si estingue in un tempo brevissimo: tutto ciò rende assai poco probabile l’ipotesi di contagio attraverso insetti vettori.

Dunque è forse più corretto e sensato dire che il vero fattore di rischio non è l’insetto, ma bensì l’uomo: il contenuto residuo di sangue in un ago appena usato, al contrario della bocca del tafano, è sì in grado di infettare un altro cavallo.

Da tutti questi elementi traiamo le nostre considerazioni e poniamo con maggior forza le domande che facciamo da tempo: visto che la percentuale di sieropositivi (asintomatici) è oggettivamente bassa, visto che non risultano casi di malattia conclamata e visto che in realtà la vera potenziale fonte di contagio è la mano dell’uomo, ha senso mantenere l’attuale costoso piano di controllo nazionale? Perché non limitarlo ai soli cavalli che si spostano per gare o manifestazioni di qualsiasi tipo e che vanno a creare le cosiddette “concentrazioni di equidi”? O, ancora meglio, perché non ribaltare l’attuale situazione ed fare i test a tutti i cavalli destinati alla macellazione, così da avere dei dati statistici e geografici più precisi, oltre che economizzare sui costi? Infine, perché non revocare il sequestro sanitario ai cavalli che non vengono movimentati, consentendo al proprietario di far convivere cavalli positivi e negativi in condizioni etologicamente corrette?

Giriamo queste domande al Ministero della Salute, rendendoci disponibili a un eventuale confronto.

IL CASO SAPHIRA

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